a cura di Tommaso Perrone
Una ragazza si è incatenata alla rete di uno dei campi da tennis più famosi al mondo per chiedere azione per il clima. È successo una calda (troppo) sera di giugno, durante la semifinale del Roland Garros di Parigi tra Marin Cilic e Casper Ruud, uno dei tornei più prestigiosi al mondo. Sulla maglietta aveva scritto: “Ci mancano solo 1.028 giorni”. Il riferimento è al 2025, anno entro il quale, secondo gli scienziati, dovremmo raggiungere il picco delle emissioni di gas serra che causano il riscaldamento globale. Dopodiché le emissioni dovranno calare in modo rapido e deciso. Se nel 2025 non riusciremo a invertire questa tendenza, contenere l’aumento della temperatura media globale entro gli 1,5 gradi sarà impossibile.
Cosa ci si dovrebbe aspettare? Che Stati e popoli collaborino e cooperino strenuamente per far sì che gran parte dei combustibili fossili rimanga sottoterra, a partire dal carbone. Ci si aspetterebbe un fermento di azioni e soluzioni per salvarci e per salvare dalla crisi climatica l’unico pianeta che abbiamo a disposizione. Questo è ciò che ci aspetteremmo in quanto esseri intelligenti che hanno a cuore la sopravvivenza nel lungo periodo.
Cosa sta succedendo in realtà? Qualcosa di molto diverso. Dopo la Cop26 di Glasgow, il quotidiano britannico Guardian, nelle figure di Damian Carrington e Matthew Taylor, ha deciso di realizzare un’indagine per capire cosa si stia facendo davvero per contrastare il riscaldamento globale e ha identificato 195 carbon bombs, ovvero 195 “bombe climatiche”, bombe di gas serra (in italiano non c’è ancora una definizione precisa) la cui miccia è già stata accesa e – quindi – pronte a esplodere. Andiamo per… gradi.
Cos’è una carbon bomb?
Con l’espressione bomba climatica si intende un progetto su larga scala finalizzato all’esplorazione ed estrazione di combustibili fossili capace di emettere in atmosfera almeno 1 miliardo di tonnellate di CO2 nell’arco della sua durata. Per darvi un termine di paragone, si tratta di quasi tre volte le emissioni che l’Italia produce in un anno (376 milioni di tonnellate). Oppure, se preferite, fare il giro del mondo in auto per 90 milioni di volte.
Quante bombe climatiche sono state identificate?
195 per un totale di 646 miliardi di tonnellate di CO2, ovvero gigatonnellate (Gt). Di queste il 60 per cento sono progetti già in funzione, il 40 per cento non sono ancora partiti e non devono assolutamente partire se vogliamo salvarci dalla catastrofe climatica. Attualmente, infatti, ci restano a disposizione meno di 400 Gt prima di esaurire il credito (noto anche come carbon budget) che abbiamo per restare entro gli 1,5 gradi e circa 1.000 Gt per restare entro i 2 gradi. Questo significa che le carbon bombs, da sole, ci farebbero bucare ogni tipo di obiettivo credibile nella lotta contro il riscaldamento globale. Tra i paesi che si guadagnerebbero la maggior parte di questa fetta ci sono gli Stati Uniti con 22 bombe e 140 Gt, l’Arabia Saudita con 107 Gt e 23,5 bombe, la Russia con 83 Gt e 25 bombe. Poi ci sono il Qatar con 43 Gt e l’Iraq con 28 Gt. E la Cina? Si attesta al settimo posto con 27 Gt di CO2 e 11 bombe, molte meno di quante ci si aspetterebbe considerando la sua popolazione. La stessa quantità di Canada e Brasile, per intenderci.
Chi c’è dietro le bombe climatiche?
Una dozzina di compagnie petrolifere come Qatar Energy, Gazprom, Saudi Aramco, Exxon Mobil, Petrobras, Turkmengaz, Total, Chevron, Shell e Bp. Queste e molte altre hanno intenzione di spendere fino a un totale di 387 milioni di dollari al giorno – circa 346 milioni di euro, sempre al giorno – per l’esplorazione di petrolio e gas da qui al 2030.
A che prezzo, quindi?
Circa un quarto di questi soldi, 103 milioni di dollari (92 milioni di euro) andrebbero a finanziare l’estrazione di combustibili fossili che non potrebbero essere nemmeno bruciati se vogliamo evitare gli effetti peggiori dei cambiamenti climatici. Parliamo di ondate di calore estreme (il Nordafrica e l’Europa mediterranea ne sanno qualcosa), siccità, alluvioni. Soldi, quindi, che andrebbero dirottati immediatamente verso lo sviluppo di fonti di energia pulita e rinnovabile. Se andiamo a sommare le quantità non per compagnie, ma per stati sorprende scoprire che sono ancora i paesi industrializzati e occidentali a voler sprecare la maggior parte dei soldi in questa attività autodistruttiva: Stati Uniti, Canada e Australia.
Qual è la bomba più grande?
La bomba peggiore prevista è quella di Cabo Delgado, in Mozambico, dove è stato scoperto un immenso giacimento sottomarino di gas, al largo delle coste settentrionali della nazione africana. Parliamo di 5mila miliardi di metri cubi. Una quantità che farebbe pagare un prezzo immenso al Pianeta in termini di gas serra, oltre a porre rischi per l’ambiente locale, a cominciare dalla biodiversità marina. Tra i finanziatori di questo progetto ci sono l’italiana Eni, la statunitense Exxon Mobil e la francese Total. Quest’ultima avrebbe previsto un investimento pari a 25 miliardi di dollari. In totale, il nuovo petrolio estratto nel mondo nei prossimi sette anni sarebbe pari 192 miliardi di barili, equivalenti alle emissioni annuali di gas serra della Cina. Un quadro desolante che ci fa capire che i governi nazionali e le organizzazioni internazionali incaricate di coordinare gli stati stanno facendo poco o nulla per ridurre le emissioni di CO2. Eppure l’autore di questa inchiesta, il celebre per gli addetti ai lavori Damian Carrington ha affermato che “non è ancora troppo tardi, ma la finestra temporale a nostra disposizione per agire è molto, molto, molto piccola”. Cosa ci fa ancora sperare? Il fatto che, continua Carrington, “non sia una questione tecnica, tecnologica o legale che sta fermando il cambiamento. È la volontà politica. E questa è una buona notizia, in un certo senso, perché conosciamo la soluzione”. Ma questo vale poco finché non la trasformiamo in un fatto reale.
Negoziati sul clima in corso a Bonn
Non mi dilungo troppo nel segnalarvi che, a proposito di volontà politica, in questi giorni è in corso a Bonn la fase preparatoria della Cop27 di Sharm el-Sheik, in Egitto, che si terrà a novembre. “Numerose nazioni non sono infatti ancora allineate e dovranno presentare nuove promesse di riduzione delle emissioni, gli Ndc (Nationally determined contributions)”, scrive Andrea Barolini su LifeGate. Parliamo di quelle promesse che andavano consegnate già due anni fa per migliorare le proiezioni di aumento della temperatura media globale. “Ad oggi, infatti, la traiettoria degli impegni avanzati finora porterebbe la temperatura media globale a crescere di 2,8 gradi”, continua Barolini. “Altro punto annoso all’ordine del giorno è quello sui finanziamenti dal Nord al Sud del mondo per l’adattamento di fronte alle conseguenze dei cambiamenti climatici. Nel 2009 i paesi ricchi e più responsabili del riscaldamento globale avevano promesso 100 miliardi di dollari all’anno da destinare a quelli in via di sviluppo, meno responsabili e, per giunta, più vulnerabili ai cambiamenti climatici. Una cifra che non è mai stata rispettata. |
Chiudo col segnalarvi che venerdì 10 giugno sono stato a Lecce, in Puglia, per l’inaugurazione della nuova sede del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici, il Cmcc e del potenziamento del suo centro di supercalcolo (attivo dal 2008). Il presente e il futuro del clima si studiano (anche) in Salento. Un luogo che ora ospita un gruppo di ricerca multidisciplinare composto da scienziati italiani e internazionali e il nuovo data center, tra i più avanzati in Europa, dedicato interamente allo studio del clima e delle sue interazioni con i modelli socioeconomici. C’è chi studia le correnti marine e oceaniche per capire quali sono le rotte navali più efficienti dal punto di vista del consumo di carburante in un determinato momento e luogo; c’è chi cerca di capire il ruolo degli oceani nel mitigare, cioè nell’assorbire, parte della CO2 che gli esseri umani emettono in atmosfera: se non ci fossero gli oceani, infatti, saremmo già belli che “fritti”; e poi c’è chi studia gli effetti della CO2 su flora e fauna dell’acidificazione degli oceani. C’è persino chi, nonostante tutto, aiuta le compagnie petrolifere a evitare che eventuali sversamenti di petrolio in mare aperto si trasformino in disastri ambientali, sempre attraverso il monitoraggio delle correnti. Il Cmcc è uno di quei luoghi di ricerca scientifica che dovremmo celebrare ogni giorno, appena ci svegliamo. Di cui dovremmo andar fieri di avere in Italia e citare ogniqualvolta esce fuori il tema dell’eccellenza. Di questo e molto altro parlerò in modo più puntuale e approfondito su LifeGate.it e sui social. Ne vale davvero la pena.
La settimana scorsa non ci siamo sentiti perché il tema trattato oggi richiedeva molto impegno e il lavoro quotidiano non mi ha permesso di dedicare tempo a sufficienza per approfondirlo. Spero ne sia valsa la pena. Ringrazio Elisabetta Scuri per la segnalazione. Ne approfitto per anticiparvi che – per motivi personali – la newsletter andrà in vacanza a partire da metà luglio per poi riprendere regolarmente nel giro di un mese. Appena avrò date certe, vi darò maggiori informazioni. A settimana prossima. |
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Il Climatariano nasce dall’assunto che il decennio in cui siamo entrati è fondamentale e definirà il nostro futuro perché non ce ne sarà un altro a nostra disposizione per trovare soluzioni. Nasce per offrire un punto di vista già “metabolizzato” sulla crisi climatica. L’obiettivo è darti una panoramica selezionata, autorevole di quello che accade nel mondo. |
(fonte: LifeGate)