L’agricoltura contemporanea è un’entità mutante che sfugge alle definizioni. È plurale, multiforme, ossimorica. In un mondo che vedrà, in tempi relativamente brevi, la gran parte del proprio territorio urbanizzarsi, l’agricoltura re-inventa le sue funzioni e trasforma l’urbano che si è sovrapposto ad essa. Gli elementi che in passato distinguevano l’urbanità dalla ruralità si sono ridimensionati e quelli che restano si sovrappongono e creano nuove differenziazioni. Le quali non hanno nulla in comune con quelle precedenti e riguardano: stili di vita, rapporti tra persone e risorse, modelli di possesso uso e consumo dei beni, abitudini alimentari, modelli di welfare, scelte multi-ideali che influenzano le motivazioni degli imprenditori. Anche altre polarità che in passato influenzavano le campagne si sono fortemente attenuate fino a scomparire: centro e periferia, metropoli e aree interne hanno perduto i significati originari. E tali endiadi oggi danno vita a nuove entità policentriche e multi-identitarie. Le quali si presentano in modo molto differenziato, ma a segnarne la distinzione sono il capitale sociale, i beni relazionali, le reti di interconnessione e i legami comunitari. Le agricolture sono molteplici e tendono a perdere i connotati produttivistici per diventare terziario civile innovativo: servizi sociali, culturali, educativi, ricreativi, ambientali, paesaggistici gestiti da imprenditori agricoli; cooperative che gestiscono i terreni confiscati alle mafie per produrre legalità e inclusione; “fazzoletti di terra” a fini di autoconsumo personale e familiare; agricolture urbane edemani civici per creare relazioni e convivialità. Non bisogna dimenticare che l’agricoltura venne inventata diecimila anni fa come servizio per poter abitare un territorio. “Coltivare”, in ebraico abad, letteralmente significa “servire”. L’agricoltura è, dunque, un rituale per curare il territorio e la comunità al fine di ben-vivere stabilmente in un luogo.